Cosa vuol dire Bhavana?
Vuol dire meditazione :"un portare alla luce", un "far nascere"
di Elisa Chiodarelli
Bhāvanā, in sanscrito indica la meditazione di consapevolezza.
Mentre per noi e per le nostre tradizioni linguistiche latine, la parola meditare deriva da radici che indicano – oltre che l’attività della contemplazione, anche quella della cura (meditare ha infatti in comune a “medico” e a “medicina” appunto la prima parte della parola) – nell’oriente buddhista invece la meditazione, bhāvanā, è un portare alla luce, un far nascere, dato che qui la radice della parola è bhū = essere.
Quando faccio meditazione nell’India buddhista, rivelo ciò che c’è, ciò che esiste, porto a galla la (mia) esistenza. Che equivale un pochino al “conosci te stesso” socratico.
Mi ricordo di chi sono
Quando mi siedo sul cuscino da meditazione dunque incontro me stesso così come sono, punto di partenza indispensabile per qualsiasi cambiamento.
Il respiro mi aiuta in questo incontro intimo con ciò che c’è perché funge da oggetto di attenzione e armonizzatore, utile per rilassarmi nel momento presente e per tornarci non appena mi accorgo che l’attenzione se n’è andata. Altro termine sanscrito che si usa per indicare la meditazione è smṛti, ovvero “ricordo, ricordare”, che nella cultura indiana indica anche il corpus dei testi della tradizione, quelli che ci tramandano i miti di un popolo.
Perché uso le parole “ricordo”, “ricordare” ed “esistenza”, “ciò che esiste” per indicare la meditazione di consapevolezza?
Se torniamo per un attimo all’etimologia latina di “ricordo”, scopriamo che deriva da cor, cordis, cuore, perché proprio il cuore era ritenuto la sede della memoria. Ed è da lì, da quella porta di entrata fondamentale che, con la meditazione di consapevolezza, ci ricordiamo di esistere e ci riconnettiamo con noi stessi e con il momento presente.
Apriamo il cuore, si dice nella tradizione, perché finalmente ci ricordiamo di ciò che siamo e vediamo sempre più chiaramente i nostri schemi di comportamento, le nostre idee su noi stessi e sul mondo; le nostre paure più radicate e le trappole nelle quali ci infiliamo da soli. “Duhkha” insomma, come direbbe il Buddha, ovvero la sofferenza in tutte le sue forme.
I fondamenti della consapevolezza
Uno dei due testi della tradizione buddhista fondamentali per capire come si fa a fare bhāvanā (o smṛti) è il Satipaṭṭhānasutta, il Discorso sui (quattro) fondamenti della consapevolezza, contenuto nel canone buddhista. Questo testo comincia così: “Egli va nella foresta, ai piedi di un albero, in una stanza vuota, si siede a gambe incrociate nella postura del loto, tiene il corpo eretto e stabilisce la consapevolezza di fronte a sé. Egli inspira, consapevole di inspirare. Egli espira, consapevole di espirare (…)”.
Da qui parte un viaggio in quattro tappe attraverso la consapevolezza del corpo nel corpo, delle sensazioni nelle sensazioni, della mente nella mente e degli oggetti mentali negli oggetti mentali. Quattro modi per riportarci alla consapevolezza del momento presente in tutto ciò che avviene dentro di noi.
Per il buddhismo dunque fare meditazione è un modo per riportarci a noi stessi, e cominciare a fare esperienza delle difficoltà con la separazione tra osservatore e osservato, per rilassarci gradualmente con l’esperienza così com’è – dell’esperienza nell’esperienza – e smettere di fare attrito con la realtà.
Finché il confine tra soggetto che osserva e oggetto osservato si dissolve per diventare la stessa cosa. E quando riusciamo a non separarci da ciò che viviamo, siamo più calmi e più in pace con la realtà. Forse, seduta sul cuscino da meditazione di casa mia, da bambina, mi riusciva più facile di adesso; forse è per questo che ho continuato