Le dee indiane dell’amore
Nella mitologia rappresentano la quintessenza della femminilità
di Marina Nasi
Un pantheon caleidoscopico, ricco di simbolismi, sensualità e colori. Studiare da profani, senza alcuna pretesa accademica né tantomeno mistica, le divinità dell’induismo regala l’ammaliante stupore della fiaba. Soprattutto quando si tratta di divinità femminili, ovvero le tante, davvero tante (noi ne osserveremo solo alcune) manifestazioni della Shakti, il principio dell’energia divina che nell’induismo è, appunto, femmina. Come spiega l’esperto francese di religioni Odon Vallet in “Le spiritualità indiane” (Ippocampo, 2012), il tantrismo, a cui si rifà buona parte dello yoga, «teorizza e divinizza questa energia femminile, e il volto della Shakti è al centro della religione, sia di ispirazione induista, sia di ispirazione buddhista-tibetana». Del resto nell’induismo il principio divino è unico ma i suoi aspetti molteplici. Shakti è la polarità femminile di Shiva, ma anche il suo sinonimo, nonché la sua energia, nonché la sua compagna alter ego. Shiva non è nemmeno concepibile senza Shakti, la sua metà femminile: può diventare attivo solamente quando quest’ultima gli dà forza. Complicatissimo poi sarebbe spiegare come la Shakti si manifesti in tante differenti devi (le dee indu), tutte con diversi nomi e diversissime identità, in un moltiplicarsi di forme e leggende che stordisce almeno quanto i tanti culti che ne adorano ora l’una, ora l’altra, a seconda di storia e geografia. Con dichiarata semplificazione, allora, giocheremo a individuare le principali devi che rappresentano la Shakti, e come queste sono raccontate nel folklore e nell’amore con le altre divinità induiste di segno maschile.
Kali, la selvaggia
In Occidente è senza dubbio la più famosa, anche se soltanto per le tante braccia, che in realtà appartengono all’iconografia di tante altre devi indu. A differenza di altri femminei modelli di dolcezza, accudimento e serenità coniugale, Kali esprime una forza devastatrice e un’aggressività dirompente. Il suo colore è il blu notte e la sua raffigurazione tradizionale tra le più violente: spesso nuda con il ventre gonfio e il seno cadente, i capelli sciolti e scompigliati, al collo porta una collana fatta di teschi, la lingua penzoloni è spesso intrisa di sangue, lo scettro che tiene in mano ha il suo stesso potere distruttivo. Sotto di lei, sdraiato e impotente, c’è Shiva: a seconda delle illustrazioni, a volte si limita a calpestarlo, altre lo cavalca con una sessualità violenta e dominante. Insomma, Kali è il lato selvatico e distruttivo della femminilità, e l’amore non sembra contemplato tra le sue qualità. La sessualità, in compenso, abbonda, ed è sfrenata e smodata. Non è tutta cattiveria, però, quella che Kali esprime con la sua ferocia: simboleggia il cambiamento e la forza del femminile.
Lakshmi, la “sposa perfetta”
Siede serena su un grande e roseo fiore di loto, simbolo di purezza e spiritualità, la “dea madre” Lakshmi, consorte di Vishnu e madre di Kama, il dio dell’amore. Dotata di carnagione dorata, dolcissima femminilità e classica bellezza, ha quattro braccia e le sue mani sono ornate di gioielli: con una offre benedizioni, un’altra invece lascia sgorgare da una coppa monete d’oro e altri simboli di prosperità e abbondanza. Le altre due, infine, sorreggono ciascuna un altro fiore di loto. Spesso accanto a lei compaiono corsi d’acqua placida o elefanti, entrambi manifestazioni di impegno costante e di realizzazione materiale e spirituale. Considerata anche dea della ricchezza, è presente in forma di immagine o statuetta in moltissime case induiste. Dolcezza, protezione e maternità sono le sue caratteristiche, e nella tradizione la donna sposata dovrebbe ispirarsi a lei, serenamente intenta a dare sostegno, così come il marito dovrebbe cercare nella moglie un’idea di Lakshmi. Ed ecco allora che nell’iconografia abbondano anche le immagini di felicità coniugale di Lakshmi e Vishnu, spesso raffigurati insieme mentre sono affiancati, legati, abbracciati, con lei appoggiata sulle ginocchia di lui oppure intenta a massaggiargli i piedi.
Parvati, l’amore devoto
In un intreccio che sembra ricordare “Rebecca la prima moglie” di Hitchcock, la leggenda narra che la prima moglie di Shiva, Sati, diede fine alla sua vita immolandosi, spinta dalla vergogna e dall’indignazione dopo che suo padre aveva offeso il genero non invitandolo a una cerimonia, e che da allora il neo-sposo e subito vedovo Shiva, consumato dal dolore, si rifugiò nell’Himalaya per vivere da asceta, meditando e rifiutando la vita terrena. Ma la rinuncia all’amore non era destinata a durare: ecco ripresentarsi Sati reincarnata sotto forma di una nuova donna-dea, Parvati, figlia della personificazione della montagna e di una ninfa. La saggia e bella Parvati, le cui grazie estetiche non sembrano destare alcun interesse nel suo amato Shiva, capisce che deve ammaliarlo giocando nel suo stesso territorio e anche lei si rifugia da asceta nella montagna, finché l’oggetto del suo amore, conquistato da tanta spiritualità, non si decide a prenderla in moglie. Esiste anche un’altra versione della leggenda, più affine alle occidentali storie di Cupido: secondo il romanzo epico Kumurasambhavam, il dio dell’amore Kama decise di aiutare Parvati scoccando una freccia in direzione del dio che meditava, per colpire la sua attenzione. Distratto dalla meditazione, Shiva aprì il terzo occhio con cui però incenerì all’istante il povero Kama, privando così anche il mondo della forza del desiderio sessuale. Ma con l’intercessione di Parvati, nel frattempo divenuta la nuova moglie di Shiva, ecco resuscitare Kama. L’iconografia tradizionale mostra due sole braccia per la bella e gentile Parvati, con il sinistro leggiadramente sollevato e il destro che tiene in mano un fiore di loto. Detta anche “figlia della montagna”, è madre di Ganesh e Skanda e anche lei rappresenta un idea le femminile di delicatezza e benevolenza.
Sarasvati, arte e acqua
Evoluzione di una divinità fluviale d’epoca vedica, nel pantheon induista Sarasvati si è poi affermata soprattutto come incarnazione mistica delle belle arti. Nelle raffigurazioni tradizionali, infatti, oltre al mala che le incornicia il collo e l’acqua che le scorre alle spalle o sotto i piedi, tiene tra due delle sue quattro braccia la vina, un’antica versione del sitar. Ma non solo l’arte bacia l’eclettica figura di Sarasvati: rappresenta anche la parola, l’eloquenza, la sete di sapere, la conoscenza intellettuale, mentre come retaggio ed evoluzione della sua antica connessione con il fiume simboleggia anche l’acqua e, per estensione, la pulizia e la guarigione. Chiara, luminosa, associata a immagini come il cigno, il loto bianco e il colore bianco in genere, è però talmente virtuosa e spirituale che sessualità ed eros sembrano non appartenerle. Al punto che anche il suo rapporto con il dio Brahma è ambiguo: ne è sia figlia sia moglie. Ma non c’è niente di incestuoso, piuttosto la leggenda di una dea creata appositamente dal proprio sposo con una missione, quella di promuovere e proteggere la conoscenza. Ma che in virtù delle stesse sembra un po’ distaccata da trivialità come le pene d’amore.
Durga, l’affascinante guerriera
Né totalmente distruttiva come Kali, né esclusivamente dolce e benefica come Parvati e Lakshmi, ecco la risoluta Durga, manifestazione della forza creatrice che può sì distruggere, ma anche riportare l’ordine dopo il caos. Emanazione di una femminilità insieme potentissima e virginale, fieramente autosufficiente, ha tre occhi ed è raffigurata a cavallo di un leone o una tigre, mentre dalle sue dieci braccia spuntano arco, tridente, disco, spada e altre armi, ciascuna fornita da un dio, mentre le mani che non sono impegnate a combattere creano dei mudra. La sua forza guerriera protegge dai demoni che combatte furiosamente, elimina con impeto gli ostacoli, ma la sua bellezza accecante ne accentua il fascino: viso scolpito da Shiva, busto da Indra (il signore del tuono e della folgore), seno disegnato da Chandra (la divinità della luna), cosce e ginocchia cesellate dal vento e via dicendo. Al punto che il demone che è nata per combattere (e che effettivamente uccide), Mahisasura, inizialmente la sottostima in quanto donna, poi quasi si innamora di lei. Ma Durga, oltre che “l’invincibile”, è anche detta “l’inavvicinabile”, “l’inaccessibile” e ovviamente per il mostro da combattere non ha pietà. Non solo: più di una volta si lascia scappare una risata terrorizzante che scuote la terra e il cielo, e pur trasformandosi in diverse creature (bufalo, elefante, leone), il povero Mahisasura non ha scampo.
Sita, la fedeltà mitologica
Un’altra celebre figura femminile della tradizione induista è quella di Sita, non una dea ma quasi. La sua storia è descritta nel poema epico Ramayana, insieme al Mahabharata uno dei più importanti della mitologia induista, dedicato alle gesta di Rama, re e settimo avatar di Vishnu, e appunto di sue moglie Sita, che è una sorta di incarnazione di Lakshmi. Il Ramayana racconta che, durante un esilio nella foresta dovuto a guai nel regno di Rama, la giovane e bellissima Sita viene rapita da Ravana, antico pretendente e re di Lanka. Durante la lunga prigionia rifiuta le attenzioni del lascivo re nemico e, quando viene finalmente liberata, Rama prima la accoglie credendo alla sua fedeltà, poi, spinto dalle dicerie di alcuni popolani maligni, inizia a dubitare e ad allontanarla. A questo punto la dolente regina affronta un nuovo esilio, questa volta sola e incinta del marito. Ospitata e protetta dal saggio Valmiki, partorirà due gemelli e solo molto più tardi verrà finalmente riaccolta da Rama, che riconosce anche i figli. A questo punto Sita, goduta la breve felicità di vedere la sua purezza riconosciuta, chiede alla terra di inghiottirla e così avviene. Sita è spesso raffigurata a fianco di Rama, con i lunghi capelli legati e un loto nella mano, e decisamente rappresenta un ideale di pazienza e fedeltà muliebri.
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