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Giuliano Boccali, il significato del padre spirituale, il Guru

Un confronto tra Occidente e Oriente su questa figura e sulla sua funzione sociale nella cultura indiana

di Emina Cevro Vukovic

Illustrazioni di Eloisa Scichilone

 

padre spirituale GuruPer molti occidentali è difficile pensare che per progredire nella vita e nei suoi aspetti spirituali serva un guru. Abbiamo una religione già ben strutturata e gerarchizzata, abbiamo il mito del “self made man”. Ma per la tradizione indiana, nulla è più santo del maestro, giacché il guru è colui – o colei, la gurvi – che rivela il Brahman, l’Assoluto, e conduce al fine sommo della liberazione (moksa). È la verità che riluce in una persona: la “rivelazione” che s’incarna e si realizza in una relazione. Due recenti film indiani, il satirico “PK” di Rajkumar Hirani, che ha battuto i record degli incassi, e “The Messenger of God”, di Gurmeet Ram Rahim Singh, dove un guru molto pop e manesco combatte contro le droghe e l’alcolismo, si sono interrogati sulla figura del guru. Hanno suscitato l’indignazione dei pandit induisti e anche dissidi pesanti tra il governo e l’ufficio della censura, perché in India il tema è molto delicato. La figura del maestro autorevole, del guru, è centrale nelle religioni dell’India e nella tradizione dello yoga. In India non esiste un’istituzione come la Chiesa, in cui tutti si possono identificare, ma ci sono “tradizioni” spirituali che si riconoscono in una specifica successione ininterrotta di maestri, formata a partire da un fondatore, in cui si è incarnata una rivelazione. E oggi come ieri, per i discepoli il guru è un’irruzione del divino sulla terra (avatara), la guida capace di condurre alla liberazione.

 

YOGA JOURNAL: Per un occidentale che si avvicina alla tradizione spirituale dello yoga di matrice induista, non è facile capire perché i discepoli pongano, letteralmente e psicologicamente, i piedi del guru sopra la loro testa. Si può considerare un padre spirituale?

GIULIANO BOCCALI: Certo che si può legittimamente considerare il guru un padre spirituale. È un padre spirituale che affilia il discepolo con la diksha, la cerimonia in cui conferisce il mantra personale. Se si calcola che i guru appartengono tutti a un lignaggio che equivale a un lignaggio di sangue, è chiaro che sono anche qualcosa di più, persino più importanti di Dio, perché per le tradizioni induiste più rigorose, Dio non ti può soccorrere sulla strada della liberazione, mentre il guru ti può fornire il metodo per percorrerla nel più breve tempo possibile, con successo.

 

Ci vengono però in mente immagini dissonanti di guru amanti delle automobili di lusso e con comportamenti scorretti. Come riconoscere un buon padre, un buon guru e sfuggire al padre padrone?

Personalmente risponderei che i guru veri non si fanno trovare, sono difficili da raggiungere, però la risposta migliore su questo argomento l’ha data Ramana Maharshi, un guru che tutto voleva meno che essere cercato; aveva fatto voto di silenzio, ha parlato pochissimo, dando brevi risposte scritte. Vale la pena di citare la sua definizione per completo, è tratta dal libro “Ramana Maharshi” (Zimmer 2007): “Un guru dimora tutto il tempo nelle più nascoste profondità del Sé, non fa mai differenza tra sé e gli altri, non è mai preda di dubbi che pongono questa differenza. Per esempio il pensiero erroneo che lui stesso abbia la conoscenza che illumina (jnana), che abbia realizzato se stesso in verità e sia un liberato (mukta) mentre gli altri spasimano incatenati intorno a lui avvolti dalle fitte tenebre di una perduta ignoranza. Ecco, il maestro non è mai preda di pensieri sarcastici, di orgogliosa superiorità. Incrollabile nella stabilità e nel dominio di sé, nulla che gli capita può recagli turbamento”.

 

Dunque si giudica dal comportamento, dall’esempio di vita più che dalle parole?

Certo, sostanzialmente un buon maestro è quello che testimonia della propria verità con la sua vita e il suo percorso.

 

Un guru è per tutta la vita, così come si ha un padre solo?

Divorziare da un guru in un’ottica indiana è inconcepibile, così come il guru non può divorziare dall’allievo.

 

Però indubbiamente esistono i cattivi guru.

Ebbene, Antonio Rigopoulos, docente all’Università Ca’ Foscari di Venezia, spiega che la tradizione Vedanta, solo quella, ammette che una persona possa rendersi conto che ci sono dei guru migliori del proprio. Però questo non autorizza nessun cambiamento. Tu puoi andare ad ascoltare altri insegnamenti, ma non puoi cambiare il guru, perché è il karma che ha fatto in modo che tu scegliessi un guru che non è il massimo; se avessi avuto un buon karma, ne avresti trovato uno migliore.

 

Obbedienza è una parola difficile per gli occidentali, vero?

L’obbedienza cieca, incondizionata ha una spiegazione storica-karmatica, ma risponde anche a un’esigenza metodologica. Cioè, se tu non ti puoi permettere di dubitare, men che meno di disobbedire, a quello che il guru esplicitamente o implicitamente ti indica, anche quando ciò non ti va bene, questo ti costringe a scoprirne il significato, ad attivare il tuo guru interiore. Se invece, come facciamo noi in Occidente, ci permettiamo subito di dubitare non traiamo beneficio dal confronto.

 

Si tratta perciò di un’obbedienza funzionale?

Sì, perché alla fine di questa fase di devozione e di obbedienza scopri che in realtà il tuo guru è il tuo io interiore. Proprio questa costrizione a dover trovare un senso anche a quello che non ti va bene, che ti contrasta, che ti infastidisce, fa in modo che tu ti rivolga alla tua interiorità. Così che alla fine ad ammaestrarti non è il guru esterno, ma quello che ti viene da dentro, e a un certo punto non hai più bisogno del guru esterno.

 

Possiamo dire che un buon guru è come un buon padre, non è compiacente, non vuol fare l’amico, ti costringe a un confronto che ti fa crescere?

Sicuramente, devo dire che mi sembra che in Occidente ci siano “guru” un po’ troppo compiacenti. La figura del maestro spirituale, del guru, esiste anche nella tradizione dello yoga tantrico buddhista, e in questa visione il maestro non è dato dal Karma, ma si sceglie attentamente. Il Dalai Lama ha invitato a osservare il maestro nelle azioni, nelle relazioni e nelle parole anche per dieci anni prima di decidersi a diventarne discepoli, ma una volta presa la decisione invita a seguirlo, anche perché solo chi ci conosce bene può davvero aiutarci. Queste visioni tradizionali contrastano con la nostra idea tutta occidentale di libertà. Ma invitano a una riflessione. Spesso la nostra libertà diventa un saltare da un insegnamento all’altro, in un atteggiamento consumistico. Riscoprire la devozione e una dimensione affettiva e di rispetto verso i maestri riporta a una misura umana, ci rende adulti.

C’è un vecchio e bellissimo libro, “Il mio guru” di Christopher Isherwood, che lo spiega molto bene: nei maestri così come nel padre vero non dobbiamo cercare la perfezione, che non esiste. Cerchiamo il confronto e se siamo fortunati, se abbiamo scelto bene, troviamo l’amore.

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