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Tim Parks: siediti e respira

Lo scrittore ci racconta come l’esperienza del corpo abbia scalzato le sue diffidenze intellettuali

di Paola Tavella

 

Tim Parks img«Mai avrei immaginato di scrivere un libro sul corpo. Figuriamoci poi sul mio corpo. Argomento indecoroso. D’altra parte, non avrei mai immaginato neppure una malattia tanto misteriosa ed esasperante come quella che mi ha colpito. Soprattutto, non avrei mai sospettato che un’alterazione fisica potesse insinuare il dubbio nelle mie certezze più radicate, obbligandomi a ripensare il ruolo predominante che da sempre riconosco al linguaggio e all’attività intellettuale. Con messaggi, e-mail, chat e blog, la mente moderna divora la nostra carne: a questa conclusione mi ha portato la mia lunga odissea. Siamo diventati vampiri cerebrali e ci nutriamo della nostra stessa linfa vitale. Perfino in palestra, o mentre facciamo jogging, la vita scorre tutta nella mente, a scapito del corpo». Così si apre un libro prezioso, “Insegnaci la quiete” (Mondadori, 2010), long seller di Tim Parks. Scrittore inglese nato a Manchester da una famiglia opprimente e rigidamente anglicana (suo padre era pastore), studi a Cambridge e ad Harvard. Parks vive in Italia da trent’anni, ha sposato un’italiana e insegna traduzione letteraria allo Iulm di Milano.

 

Quando il corpo si fa sentire

Nel suo libro, Tim Parks racconta di aver sempre trattato il corpo come estraneo, lontano da sé, ma di averlo obbligato comunque all’efficienza, a superare prove di forza, coraggio e destrezza, a farsi vivo soltanto se richiesto. Fino a quando in lui qualcosa si rompe e comincia a soffrire di un dolore bruciante e continuo alle pelvi, e a temere di trasformarsi, a soli cinquant’annni, in un “vecchio brontolone e piscione”. Prende, dunque, a cercare la causa della sofferenza, e scopre che è inafferrabile. Non una malattia della prostata, non un tumore. Gli specialisti allargano le braccia, lo indirizzano ad altri luminari. Nessuno ha una diagnosi certa, tanto meno un rimedio. In India va da un medico ayurvedico, con scetticismo razionalista e inconfessabile speranza. Quello vuole tracciare il suo piano astrologico, consiglia enteroclismi di olio di sesamo ed erbe, ma gli suggerisce anche che è nella psiche, nell’anima, nel carattere che si trova il guasto. Parks rabbrividisce. Infine, un libro di due medici dell’Università di Stanford (“Headache in the pelvis” di D. Wise e R. Anderson,) gli spiega che il dolore pelvico cronico è dovuto a una contrazione protratta dei muscoli della zona, risposta inconscia ad eventi stressanti. La cura? Respira e rilassati. Gli autori non sono sciamani, non vogliono interpretare il suo oroscopo, non pronunciano parole sconosciute, appartengono al suo stesso mondo, quello delle persone serie, razionali, colte, fiduciose nella scienza. E Parks respira. Fallisce e riprova. Pian piano migliora. A quel tempo la sola parola “meditazione”, però, gli dà fastidio. Dovrà patire ancora parecchio prima di arrivare, infine, a un ritiro di meditazione Vipassana in Toscana, imparare a respirare e abbandonarsi davvero.

 

L’incontro

“Insegnaci la quiete” descrive il percorso attraverso la malattia in modo autoironico, avvincente, umile. Un racconto terapeutico, così adatto ai tempi, che avvicina all’esperienza, non alla sua rappresentazione mentale. Il libro, del resto, viene attualmente utilizzato nell’ambito di una ricerca sulla psicologia cognitiva a Manchester. E Parks ha appena scoperto che lo si consiglia spesso pure ai pazienti del Pain Center di Londra, ospedale neurologico specializzato nella cura del dolore cronico, dove infatti lo hanno invitato a parlarne.

 

Il suo libro può essere letto come la storia di una lunga resistenza alla guarigione.

Tim Parks«È vero, non si tratta di un libro sulla meditazione né sulla malattia, ma la testimonianza di un percorso personale. Quanto alla resistenza, ricordo che quando ho cominciato a soffrire, cercavo una cura alternativa perché avevo paura degli interventi chirurgici nella zona urogenitale, non volevo perdere la funzione sessuale. Però ero altrettanto spaventato dalle pratiche che entravano in contraddizione con la mia storia familiare e religiosa. I cristiani provano ansia quando devono aprirsi a qualcosa che esula dalla loro tradizione. Mio fratello, se gli consiglio un po’ di yoga per controllare i suoi attacchi di panico, mi oppone il timore che, se dovesse funzionare, si troverebbe smarrito nella sua collocazione rispetto al mondo».

 

Si può dire che lei è stato condotto dal suo corpo verso la meditazione?

«Soffrivo di dolori cronici, e cercavo disperatamente di non farli entrare in quella che consideravo la mia vita vera, ma non ci riuscivo. Pensavo, però, che i dottori che volevano a tutti i costi operarmi non ci capissero niente, così ho cercato altrove. Sono andato da un dottore ayurvedico mentre ero in India, ma solo perché mi sembrava facesse parte del viaggio. Un po’ come chi va in Oriente per meditare, ma in realtà cerca di cambiare la sua vita con l’invenzione di un sé più interessante. Forse sarebbe più utile abbassare la cresta, diminuire quel sé. Comunque, alla fine le mie resistenze hanno ceduto. Sono sempre stato fisicamente molto teso, invece ora quando medito e arrivo al punto zero mi ammorbidisco, posso contemplare. Stamattina tutto il lato sinistro del corpo mi doleva, ma mi era del tutto indifferente. Non c’è bisogno di viaggiare per trovare chissà quali esotismi. È già tutto qui».

 

E qui che cosa ha trovato?

«Dapprima ho incontrato un libro di esercizi di respirazione, e poi un terapeuta shiatzu di cui all’inizio diffidavo: è il padre di un compa­gno di scuola di mio figlio, un uomo che non ha ricevuto alcuna forma di istruzione dopo i 16 anni. Mi sono reso conto che questo aveva influenzato la mia opinione nei suoi confronti e su quello che mi poteva dare, ma la verità è che lui mi piaceva. Mi ha suggerito di seguire un corso di meditazione, soprattutto per migliorare la postura. Diceva che ero troppo curvo. Oramai ho finito per accettare che mente e corpo sono separati solo nel di­zionario, e che se il corpo si risana, anche la mente cambia. Adesso stento a pensare la vita mentale e la vita fisica come separate. Come mi sento fisicamente, ormai, è identico a come mi sento mentalmente. Ho capito che se voglio stare bene devo affrontare i problemi che ho lasciato marcire dentro di me per tanto tempo».

 

Che cosa ha provato le prime volte che ha provato a meditare?

«Chiudendo gli occhi mi sono trovato al buio. Il territorio del buio è difficile ma soprattutto vasto, impossibile da dominare. Era un’avventura. Avevo sempre creduto che la vita fosse ristretta, invece era così più grande, più ricca. All’inizio, nei miei primi ritiri, speravo che si sarebbero prodotti “effetti speciali”. Ai principianti qualche volta succede, ma poi, quando tutto si calma, si arriva a qualcosa di più interessante. E più bello».

 

Quanto tempo ha impiegato per acquisire una pratica regolare?

«Circa un anno e mezzo per arrivare alla pra­tica quotidiana. Prima andavo a un ritiro, e allora tenevo duro per qualche tempo. Dopo mollavo, poi ricominciavo. Adesso medito un’ora appena sveglio, anche se non è il mio momento migliore. Per un lungo periodo, siccome soffrivo d’insonnia, ho meditato di notte. Mio figlio, che studia biologia molecolare, sostiene che dal punto di vista ormonale il momento migliore è fra le tre e mezzo e le quattro e mezzo del mattino. E infatti ai ritiri è proprio quella l’ora in cui ci si sveglia e si pratica».

 

La meditazione influenza il suo lavoro?

«Come romanziere, già passavo molte ore a osservare e basta. Godevo nel guardare, è sempre stato così. Meditando, via via cambiano i nessi fra le cose che osservi e i pensieri che formuli, si rivelano nuovi collegamenti fra le immagini. I primi nessi che cambiano riguardano proprio il corpo. Mi sono accorto che i corpi sono molto più complessi e vasti della più difficile lezione di genetica».

 

Che cosa scrive adesso?

«Ho appena finito un romanzo intitolato “The Servant”. Racconta la storia di una ragazza che fa la volontaria in un centro di meditazione, un’esperienza che ho provato anch’io, bellissima. Lei fa quella scelta in modo permanente, per seppellire una “narrativa di sé” che è andata malissimo. Con questo intendo che di solito le vite si basano sulla narrazione di noi stessi, mentre io esploro l’idea di una vita senza narrativa. Vivere in uno stato meditativo è uscire dalla narrazione di sé, smettere di giudicarsi.

I preti buddhisti, infatti, non scrivono romanzi. Il rischio è che una scelta così diventi un’ulteriore forma di auto-drammatizzazione, invece c’è chi, con grande sincerità, passa in un’altra dimensione, e vive solo nel cuore. Noi occidentali cerchiamo di acquisire strumenti senza avere abbastanza saggezza per usarli. Non si può pensare alla meditazione come a uno strumento, altrimen­ti si cade di nuovo nella trappola del controllo. Funziona se non c’è controllo, se smettono di esistere il dentro e il fuori».

 

Tim Parks 1Romanziere traduttore

Prima di “Insegnaci la quiete” Tim Parks ha scritto diversi romanzi, tra i quali “Lingue di fuoco, Europa” (candidato al Booker Prize), “Destino” e “Il silenzio di Cleaver”. “Italiani” e “Un’educazio­ne italiana” sono due ironici saggi sulla sua esperienza in Italia e “Questa pazza fede” racconta la società italiana vista attraverso il mondo del calcio. Parks ha inoltre tradotto vari autori italiani, tra cui Moravia, Tabucchi, Calvino, Calasso e Machiavelli. È coordinatore della Laurea Magistrale in traduzione specialistica presso l’Università IULM di Milano e ha trattato la tematica della traduzione nel suo “Tradurre l’inglese: questioni di stile”, libro in cui analizza la traduzione italiana dei modernisti inglesi. Collabora regolarmente con il New York Review of Books, il London Review of Books e, in Italia, con Il Sole 24 Ore.

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