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Daniel Lumera

Liberati da una rabbia improduttiva, tutto scorre

Daniel LumeraC’è una nuova parola-mantra che si ggira nel mondo. È precisa, diretta e rivoluzionaria: il perdono. Agisce sul benessere del nostro cervello, apre alle emozioni sane, dà un nuovo valore alla parola giustizia, rende più vive le nostre relazioni, ci mette in pace con la malattia e ci accompagna sereni nella morte. Il perdono è una nuova strategia di vita. Non è un percorso facile e per capirne la sua entità, il suo significato e la sua tecnica, ne abbiamo parlato con Daniel Lumera, docente, formatore e ricercatore da oltre 10 anni sul tema del perdono e autore di diversi libri sul tema, fondatore della “Scuola Internazionale del Perdono” e Direttore della fondazione “My Life Design”. Per Mondadori ha appena pubblicato il suo u ltimo libro,“la Cura del Perdono”, Nonostante tutti questi titoli e un tema che ci porta ad affrontare delle questioni emotivamente intime, il colloquio è facile, gioviale, ironico. Ci viene voglia di perdonarci e perdonare tutti immediatamente.

Comincio (spesso) con la domanda sbagliata, ma sa come riprendere la questione.

 

 

Posso definirtiun “Counselor del Perdono”?

Ti prego di non cominciare l’intervista insultandomi (mi dice ridendo)

 

Chiedo scusa, traduci tu il tuo percorso

Non vengo dal mondo della new age, ma da una scelta di vita profonda, dalla cultura indo-vedica. Ho avuto come mentore Padre Anthony (che lavorò anche con Ghandi N.d.R.). Con lui ho studiato da Patañjali alla Gita, sino a Sant’Agostino e le scritture dei Santi Cristiani. La mia estrazione spirituale è tradizionale, ho fatto 7 anni di Bramacharya e sono stato iniziato al Kriya quando avevo 19 anni (oggi ne ha 431 N.d.R.). Nella vita ho scelto, come laico, di vivere una vita monastica, legata alla disciplina con costanza, perseveranza, pazienza. Questi sono i valori spirituali in cui credo; oggi c’è un turismo spirituale molto superficiale su alcune tematiche.

 

Come nasce da questa tua ricerca spirituale l’approfondimento specifico sul perdono, che in qualche modo hai reso laico?

Nel 2005, dopo anni di disciplina, pensavo di essere arrivato ad una meta. Conducevo meditazioni molto profonde, vivevo in uno stato di grazia, mi sentivo estatico, ma improvvisamente mi prese una profonda crisi, che influenzò salute, relazioni, affetti e lavoro. Sembrava che tutto ciò che avevo raggiunto e dato per acquisito, fosse perso. Ma il mio approccio alla vita era molto maschile, imperniato sull’intenzione, sulla volontà e sulla determinazione. Ho imparato ad accogliere la parte femminile della conoscenza, e a pormi con atteggiamento devozionale a ciò che mi stava accadendo. Da qui ho cominciato la prima esperienza del perdono. è stato un percorso vedantico (advaita) “non duale”, che mi ha portato a trovare me stesso dentro la sofferenza e liberarmene. Non è stata una strada facile: per me il perdono è un modo di essere.

 

Ma cosa si deve perdonare? Partiamo da una semplice offesa quotidiana con il vicino, sino ad arrivare a motivi di disagio interiore profondo?

Il perdono come lo stiamo divulgando noi è qualcosa di rivoluzionario, prescinde dalla colpa, dall’errore, dalla condanna. Si fonda sulla capacità di donare: per come la vedo io, il perdono significa donare tutto ciò che accade, non solo afflizioni, ma soprattutto amore, gioia e successo.Doniamo tutto quello a cui ci attacchiamo e che crea un senso di possesso, quindi sofferenza, compresi l’amore e la malattia. Perdono è l’arte di non trasformare ogni cosa in permanente.

 

Ma i sensi di colpa, nel bene o nel male ci perseguitano…

Si, è un retaggio a mio avviso molto cattolico. Quando siamo felici, ci sentiamo in colpa perché gli altri stanno male, e non ci rendiamo conto che, solo essendo felici, possiamo aiutare gli altri. Nella mia esperienza, lavorando nelle carceri, nell’accompagnamento del morente, è inutile celebrare il dolore. L’atto di servizio, devozione, aiuto è semplicemente essere felici. Abbiamo il dovere di essere felici, è una scelta ed una nostra responsabilità nella vita.

 

Ma tu ti arrabbi mai?

Mi arrabbio in pace. Io mi meraviglio di fronte alla rabbia. Il problema è cosa ne facciamo della rabbia. Se ce l’hanno data, ha in sè qualcosa di vitale e divino. Dio è ogni cosa, è anche un pezzo d’immondizia. Dipende da noi comprendere le fratture ed elaborarla. C’è un brano nella storia di S. Francesco in cui è catturato nella notte dai demoni e lotta contro di loro nel nome del Cristo. Solo il mattino dopo dice “Riconosco in voi la mano del Padre: fai di me ciò che vuoi”, e solo con la resa e l’integrazione totale nel Cristo, i demoni fuggono. Questo metaforicamente è il perdono.

 

La pratica dello Yoga cosa può trarre da questa visione?

La pratica fisica dello yoga non deve centrarsi sull’ottenere, ma sul darsi. Non su delle logiche di convenienza, muscolari o di attesa di ascesi. Ma di concedersi, aprirsi. Solo così possono poi nascere degli spazi per ricevere l’inaspettato. Rimaniamo disponibili verso l’infinito, solo allora il corpo diventa una porta, non un limite-

 

Una Storia Sufi

“Che cosa è il perdono?” chiese al maestro. Lui sorrise, prese un sasso, lo posò davanti alla sua allieva: “Il violento lo userebbe come arma per fare del male. Il costruttore ne farebbe un mattone su cui edificare una cattedrale. Per il viandante stanco sarebbe una sedia dove incontrare riposo. L’artista vi scolpirebbe il volto della sua musa. Chi è distratto ci inciamperebbe. Il bambino ne farebbe un gioco. In ogni caso la differenza non la fa il sasso, ma l’uomo. Con il perdono l’uomo sceglie di trasformare i sassi della vita in amore”.

 

Tratto dal Libro

“La cura del Perdono”

Mondadori, pp.164, 16,50

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