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David Sye: lo yoga per risolvere i conflitti

"La mia esperienza tra gli israeliani e i palestinesi"

David Syedi Bice Mattioli

 

Metà russo, metà inglese, yogi, performer, a rtista, pacif ista: un “Gra nde Leboswky” prestato al mondo dello yoga. Si è gettato con ardore pacifista in tutti i conf litti possibili e ha provato a dirimerli. Una ma lattia a l colon, g uarita grazie a pratiche di yoga tibetano, gli fa comprendere che lo yoga diventerà il perno della sua vita. Nel ’90 si trasferisce in Jugoslavia come giornalista radiofonico e insegnante di yoga a Belgrado. Le circostanze fanno sì che rimane incastrato nel mezzo della guerra in Bosnia. Questa dimestichezza con l’emergenza della soprav vivenza quotidiana si manifesta nel suo stile di yoga: utilizza musica ritmica e movimento corporeo per esprimere e sciogliere fisicamente i paradossi del conf litto. Dopo 5 anni, tornato a Londra, av via a Finsbury Park i “Sunday Yoga”, lezioni gratuite nel parco, un evento diventato storia, ove i più importanti clubbers fanno la coda per ascoltare il rap cubano che fa da sottofondo a tutte le sue pratiche. Ovviamente, il suo approccio così eterodosso alla disciplina non è mai stato amato dalla comunità yoga istituzionale. Il gioco, il paradosso sono l’elemento fondante delle sue classi, ove asana e respirazione sono quasi molecole secondarie, rispetto alla missione dello yoga: gioire. «Non mi piace utilizzare la parola spirituale, è abusata. Io parlo di gioia. Come i bambini. Quando aggiungiamo la gioia nella nostra vita, tutto sembra avere senso, mentre quando nulla ha senso nella vita, il suicidio può diventare molto attraente».

 

YOGA JOURNAL: Come nasce questa intuizione dell’importanza del gioco e del paradosso?
DAVID SYE: L’ho sperimentato quando sono stato costretto a vivere in guerra in Bosnia, una terribile guerra suicida, per 5 anni. Tornato a Londra, ho capito che era un metodo che potevo applicare nel mondo.

 

La felicità è salute?
Sono fermamente convinto che la felicità sia portatrice di intelligenza. Abbiamo tutti delle disabilità di tipo diverso, psichiche o fisiche, ma possiamo vivere bene: il mezzo è essere gentili con se stessi, leggeri e amorevoli. E questo è, secondo me, il sentimento dello yoga.

 

E le posizioni?
Uno degli aspetti che non apprezzo della cosiddetta comunità degli insegnanti yoga è quello di mettersi in posa in posizioni complesse sui giornali per aumentare la propria notorietà, impressionare gli allievi e promettere loro una futura pace interiore. Così lo yoga diventa una moda, senza scrupoli, competitiva, elitaria, senza anima. Tutti devono essere in grado di esercitare la propria felicità, indipendentemente dalla posizione che riescono a realizzare. La maggior parte delle persone che si esibiscono in posizioni avanzate sono, secondo me, abbastanza miserabili.

 

E poi c’è la musica…
La musica e il ritmo sono gli ingredienti che utilizzo per riconnettere me e la classe a un suono ancestrale, a un movimento primordiale che conosciamo da quando siamo nati. Il corpo risponde alle frequenze della musica, che crea il contesto in cui le persone possono dimenticare le preoccupazioni, sperimentando qualcosa di simile alla libertà. L’organismo reagisce di conseguenza.

 

Quale tipo di musica scegli?
Io metto la musica contemporanea che ascolto e che ispira la mia pratica. Elettronica, jazz, rap, world music. Sono un uomo occidentale e cerco di essere autentico nei messaggi che comunico.

 

Qual è il tuo rapporto con la tradizione dello yoga?
Il mio primo insegnamento è stato quello dello yoga tibetano, in cui il movimento del corpo trasforma anche il protoplasma, la sostanza fondamentale che costituisce le cellule di tutti gli organismi (animali o vegetali) e in cui si esplicano le funzioni vitali, così da diventare permeabili al sentimento di gioia e pace. Anche l’essenza del lignaggio Hindu dello yoga è unione: collegare la gioia e l’amore per sé e per quello che si è in questa vita.

 

E i testi sacri dello yoga?
Non li cito spesso, lo faccio a volte nei miei corsi di approfondimento (Yogabeats Foundation Course), ma soprattutto cerco di fare riferimento a concetti e persone che hanno per me un significato concreto nella mia vita. Magari possono essere i poeti indiani Tagore o Rumi, ma anche Socrate, Picasso, Miles Davis: persone che pensano liberamente e fuori dagli schemi. Questi per me sono degli yogi, hanno seguito e approfondito il loro linguaggio. Per me l’ispirazione è continua e non si ferma soltanto alle scritture antiche.

 

Cos’è il gioco nello yoga?
Io ho un atteggiamento molto giocoso durante la lezione, perché voglio che le persone lascino da parte la loro egocentricità. È come durante i concerti: all’inizio la gente è ferma, seduta, piena di preconcetti; poi comincia a seguire il ritmo, a scuotere la testa e a lasciarsi andare. È lo stesso tipo di esperienza che comunico durante i miei workshop; spesso le persone sono disorientate e mi guardano spaventate, poi entrano nel gioco e ci restano, accompagnate dalla loro felicità.

 

Come si diventa insegnanti Yogabeats?
Faccio dei corsi che si chiamano “Foundation Course”, sono lunghi 4 o 5 giorni; poi ci sono degli aggiornamenti. Ho dei problemi con i corsi istituzionali di formazione insegnanti, a me sembrano degli strumenti per “mungere” soldi agli allievi. È pieno di ex ballerini e ginnasti che per allungare la loro carriera insegnano yoga e poi organizzano anche dei corsi per diventare insegnanti. In 200 ore non diventi un insegnante, per come intendo io essere e fare yoga. Il mio workshop “Yogabeats Foundation” è dedicato anche e soprattutto al mondo al di fuori dello yoga istituzionale: assistenti sociali, insegnanti di scuola, prigionieri in carcere, reduci di guerra, persone che hanno subito abusi e violenze. Sono stanco del glamour e della moda che ha accompagnato lo yoga in questi anni. Credo che lo yoga, per come lo vedo io, abbia finalità sociali superiori.

 

Che cosa non ti soddisfa del metodo di altri corsi di formazione insegnanti?
Non è un fatto di allineamenti e posizioni, è un fatto di compassione, di amore, di gioia, di intelligenza interiore e di rendere vivo e in azione questo sentimento. Questo è quello che cerco di dare nelle mie classi e questo è ciò che desidero insegnare agli insegnanti Yogabeats. L’unico requisito che richiedo per entrare è quello di avere una tua assicurazione e di scrivere una lettera motivazionale, su come intendi utilizzare questo metodo. Voglio essere certo che, nel momento in cui lascerò questo corpo, qualcuno proseguirà il lavoro nella stessa direzione. Non è un corso dispendioso, sono 4 giorni articolati in due livelli. Si ripetono asana, pranayama, filosofia, ma soprattutto si propone come utilizzare tutto questo per sostenere e aiutare l’evoluzione sociale dell’uomo. Ho già fatto questo corso con degli allievi palestinesi e in novembre farò il secondo modulo. È stato molto efficace e umanamente molto toccante, dal momento che i palestinesi della striscia di Gaza vivono in una prigione all’aperto.

 

Parliamo dell’esperienza di Yogabeats per la risoluzione dei conflitti tra Israele e Palestina.
La storia di Yogabeats e dell’uso dello yoga per abbassare la tensione e avviare un dialogo tra palestinesi e israeliani nasce nel 2004. Ero stato invitato in Israele a insegnare in un festival e ho detto che avrei accettato a condizione che anche i palestinesi potessero partecipare. Loro hanno risposto che in quel periodo erano in guerra e non potevano ospitare dei nemici. Gli ho risposto: «Io sono stato 5 anni in Bosnia e non ho mai conosciuto un nemico, non so che faccia abbia. Quindi, se non posso incontrare anche dei palestinesi, non vengo». Mi hanno organizzato una classe a Gerico con 8 palestinesi, uomini e donne, che ridevano ed erano pieni di gioia. Quindi, negli anni a seguire, ogni volta che mi invitavano in Israele proseguivo anche in Palestina. Classi separate, ove gli uni e gli altri si guardavano con sospetto, pensando reciprocamente: «Non sono male, ma sono persone povere di spirito». Sono andato avanti per 2 anni: poi la curiosità degli uni e degli altri ha fatto si che potessi organizzare una classe insieme. Ho fatto una richiesta ai militari israeliani che inizialmente hanno declinato la proposta, ma dopo molte insistenze il 18 ottobre 2006 l’hanno accettata.

 

Cosa è successo nel primo incontro?
Un pullman di 18 palestinesi ha superato il confine e ci siamo incontrati all’”American Colony Club“, a Gerusalemme. Un allievo israeliano mi ha detto di essere molto nervoso e preoccupato: «Hanno ucciso dei nostri connazionali nei Kibbutz, ma non ne ho mai incontrato uno, non so neanche che aspetto abbiano». Io ho risposto: «2 teste e 5 braccia», e lui ha cominciato a ridere. Nel momento in cui i palestinesi sono scesi dal pullman e ho visto le mie due classi incontrarsi, abbracciarsi e piangere, ho pensato: ecco la bellezza del mio lavoro. Questo è yoga.

 

E poi?
Da allora si sono incontrati con una certa frequenza fino allo scorso anno, dopo l’ultimo bombardamento di Gaza, e io ho smesso deliberatamente di andare in Israele. Vado per motivi personali, ma non insegno; i miei allievi israeliani si sentono intimiditi dal loro governo e io non posso fare altro. Io non sono un politico, sono un insegnante yoga, credo nelle persone, non nella politica.

 

E con gli amici palestinesi?
Nel 2014 ho tenuto il primo corso di “YogaBeats Foundation Teacher Training ” a Betlemme, per favorire le capacità di rimanere saldi e presenti a sé stessi, affrontando lo stress costante di una zona sotto assedio 24 ore al giorno e prendendo atto che questa è la loro vita quotidiana. Quest’anno, alcuni di loro sono stati invitati a tenere un workshop alle isole Canarie. Per me è motivo di grande emozione. Significa che questo piccolo movimento può insegnare e testimoniare gioia al mondo. E questo nasce da un luogo ove la compassione è quasi utopia.

 

A me sembra che ci sia un filo conduttore da “combattente” in tutto ciò che intraprendi.
Lo dice anche la mia fidanzata. C’è uno strano karma in me, mi ritrovo sempre in guerre e conflitti. Ho avuto a che fare con bambini di strada e maltrattati, con problemi di salute personale, con guerre in Bosnia, con conflitti tra israeliani e palestinesi: lo yoga è sempre stata la risposta a tutto. Sai, molte persone sono in guerra e non lo sanno, gli chiedi «come va?» e loro ti dicono «bene!», ma fingono, mentono. È qui che hai bisogno di yoga, ma non di posizioni, di compassione. Molti insegnanti, di fronte a questa sofferenza, si ostinano con gli asana che hanno imparato da altri e su qualche libro. Quando ho con me degli insegnanti yoga, chiedo loro di lavorare con se stessi e di rendersi conto che le soluzioni non si trovano altrove, ma nella loro esperienza. Le risposte ci sono, ma non sappiamo cercarle. Quando ero in Bosnia e come giornalista dovevo andare in giro e chiedere testimonianza di pace a liberi pensatori, intellettuali e artisti, il mio capo mi diceva: «Sye, facciamo la guerra per fare la pace!». Questo è lo yoga, combattiamo per essere autentici e veri, lavoriamo per avere pace e amore.

 

Un’ultima domanda: i tuoi tattoo?
Sono un pagano e, come tale, ogni volta che un evento ha salvato o segnato la mia vita, l’ho fissato sul mio corpo.

 

Per informazioni e per sostenere le attività di Yogabeats Conflict nell’area palestinese, contattare Sarah Stephen: yogabeatsconflict@yogabeats.com

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