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La Messa Yogica

Le singolari analogie tra la pratica yoga e la celebrazione del rito cattolico

di Padre Antonio Gentili con la collaborazione di Orsola Fortunato

Messa YogicaIl contesto interculturale, intrareligioso e interreligioso in cui viviamo ci sollecita a considerare la possibilità e l’utilità di reciproche fecondazioni tra le diverse tradizioni spirituali e religiose. Ci si domanda come un cristiano, radicato nella propria tradizione, possa trovare vantaggio dalla conoscenza e dalla pratica dello yoga, secondo la visione che ne offre Patañjali nei suoi Aforismi.

 

I Fondamenti comuni

Le radici dello yoga sono comuni a ogni autentica religiosità: il silenzio (citta-vritti-nirodhah, I/2), il non-attaccamento al proprio ego (I/2), l’abbandono in Dio (Isvara pranidhana, I/23). Si può a questo punto intessere un illuminante parallelo con la Vergine Maria, il suo silenzio accogliente, l’umile riconoscimento della sua “pochezza” e la gioiosa docilità ai disegni divini. In secondo luogo il sentiero yogico ha singolari agganci con la celebrazione della messa:

  1. Yama (le 5 astensioni: violenza, falsità, furto, incontinenza, avidità) richiama il momento penitenziale.
  2. Niyama (che implica purezza, accontentarsi, ascesi, studio delle Scritture) rimanda in particolare alla frequentazione della Parola divina proclamata nella messa e alle disposizioni con cui accoglierla.
  3. Asana (movimenti e posizioni) rivive nella gestualità propria della celebrazione, così che l’atteggiamento e i gesti esteriori si traducano in esperienza interiore, in modo da ricuperare il linguaggio simbolico, che è quello proprio di ogni culto.
  4. Pranayama (percezione del respiro come ritmo vitale) aiuta a cogliere la valenza “spirituale” del “respiro” (stessa radice!) e a «respirare Spirito santo». La Comunione con Cristo si traduce in effusione del suo Spirito!
  5. Pratyahara (rientro dei sensi) favorisce il risveglio dei sensi interiori, indispensabili per percepire e gustare le realtà trascendenti.
  6. I tre successivi gradini (Dharana/concentrazione; Dhyana/meditazione; Samadhi/enstasi) spianano la via alla contemplazione (estasi) e, favorendo il rientro in sé, aiutano a cogliere la Presenza divina nelle profondità dell’essere umano (Dio più intimo del mio intimo), e ad accogliere il Signore (Dio più eccelso di quanto mi sovrasta. Così leggiamo in sant’Agostino, Confessioni, III, 6.11). Si tratta di quel Dio che viene incontro alle sue creature nell’umanità di Gesù.

 

Mantenere il legame con il divino

È possibile ravvisare non poche consonanze tra le Scritture indù, che costituiscono lo sfondo culturale dello yoga, e i momenti salienti della celebrazione eucaristica. Il culto appartiene a ogni cultura. Da che mondo è mondo i popoli hanno considerato di importanza decisiva stabilire un corretto rapporto tra il mondo umano e quello divino, rapporto che non va limitato alle richieste astrologiche o meteorologiche. Tale rapporto si configura come alleanza con il divino. E poiché l’esperienza umana ci dice che l’alleanza viene spesso infranta, ogni cultura ha elaborato dei riti di ricomposizione, di riparazione. Questi riti comportano il “sacrificio”. Le dottrine indù sottolineano con enfasi l’importanza del “sacrificio” che segna l’azione riconciliatrice di Dio verso l’uomo e dell’uomo verso Dio. «Il sacrificio è con assoluta certezza ciò da cui l’intero mondo è sostenuto. Tutto ciò che esiste ha un solo principio di vita: il sacrificio. È a forza di sacrificio che gli dèi hanno portato a compimento tutte le loro imprese». La celebrazione eucaristica ripropone a sua volta due costanti dell’esperienza religiosa universale: il sacrificio come offerta alla divinità, e l’assunzione (la comunione) di un cibo sacro. Scrive C.G. Jung. «A messa si può andare con grande serietà e pietà, ma è [il sacrificio di sé in comunione con quello di Cristo] l’evento veramente vissuto… Per mezzo di questo sacrificio noi conquistiamo noi stessi, perché possediamo soltanto quello che diamo».

 

Il segno iniziale (e finale) della Croce

Forse non ci siamo mai soffermati a pensare alle parti del corpo coinvolte nel Segno di Croce, alla luce delle informazioni acquisite, attraverso la pratica dello yoga, sui centri di energia vitale (chakra). Di norma poi il Segno di Croce è accompagnato dall’invocazione dei nomi divini. All’inizio della nostra preghiera, dopo aver assunto una posizione corretta, la prima cosa che facciamo col Segno di Croce è quella di toccare e quindi “riaccendere” quei centri di energia che ci legano più intimamente a Dio Padre, Figlio e Spirito santo. Esserne consapevoli aiuta molto a predisporci a una preghiera più profonda e fruttuosa.

Iniziamo mettendo le mani giunte, davanti al corpo, all’altezza del petto (cuore – quarto centro di energia, Anahata). Alla base della nostra fede c’è l’amore: l’amore di Dio per noi e il nostro amore per Lui.

Poi, mentre appoggiamo la mano sinistra sul cuore, portiamo la mano destra sulla fronte (sesto-settimo centro di energia, Ajna e Sahasrara) e pronunciamo attraverso la voce (quinto centro di energia, Vishuddi) le parole “Nel nome del Padre…”. Come abbiamo già affermato, i due centri di energia più alti sono quelli che ci uniscono al Padre e ci permettono di avere la visione naturale (attraverso la vista) e soprannaturale (attraverso i sensi interiori).

Dopo aver pronunciato la prima frase, continuiamo affermando con la voce “e del Figlio” e nel frattempo con la mano destra tocchiamo il centro del cuore Anahata. Il Figlio è amore, il suo amore è nel nostro cuore, e nel toccare questo centro risvegliamo l’amore che è in noi.

Continuiamo toccando con la mano destra prima la spalla sinistra e poi la destra e pronunciando le parole “e dello Spirito Santo” (mani braccia e spalle – quinto centro di energia). È come se ora, dopo aver vissuto la dimensione verticale (fronte – cuore) la fondessimo con quella orizzontale (le due spalle) e spingessimo il nostro pensiero d’amore fino ai confini del mondo. È lo Spirito Santo a illuminare i nostri sensi così che le nostre azioni (ciò che grazie alle braccia e alle mani realizziamo) siano ordinate al bene.

Pronunciamo poi “Amen” e riportiamo le due mani giunte davanti al cuore.

Ripensate al valore immenso che questo gesto racchiude. In un gesto semplice e veloce, con poche parole, abbiamo familiarizzato con Dio, pronunciandone i nomi: Padre, Figlio e Spirito Santo. E dire “nomi” significa vederne riversate in noi l’immensa energia che racchiudono. Avvertiamo la protezione potente che lo Spirito Santo, come un mantello ben calato sulle nostre spalle, opera nella nostra vita. Al centro di tutto c’è il cuore: è da lì che parte e lì che finisce il movimento. Attraverso il Segno della Croce è come se l’incontro tra l’uomo e Dio avvenisse nel cuore.

 

Padre_GentiliPadre Antonio Gentili

Religioso barnabita, oggi risiede e opera nel convento di Campello sul Clitunno (PG). Studioso di spiritualità, ha esplorato le grandi tradizioni meditative dell’Occidente e dell’Oriente. Guida corsi di meditazione e preghiera profonda aperti a ogni categoria di persone. In collaborazione con esperti, organizza settimane di digiuno e meditazione per la purificazione integrale. Autore di spiritualità tra i più noti, ha pubblicato numerose opere per Àncora, tra cui ricordiamo: La preghiera del cuore: apprendere a meditare. I nostri sensi illumina: saggio sui cinque sensi spirituali.

 

Info: alconvento.barnabiti.net

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