Padre Antonio Gentili
Lo yoga, promuovendo l’autorealizzazione, valorizza l’uomo e può favorire l’apertura al sacro
di Bice Mattioli
Padre Antonio Maria Gentili dirige il Convento dei Santi Giovanni e Pietro di Campello sul Clitunno (PG), dopo una lunga esperienza nella Casa ddi esercizi spirituali di Eupilio (Como). Negli anni, ha approfondito soprattutto la pratica della meditazione, anche in riferimento alle prassi del vicino e lontano Oriente. Da decenni fa yoga e guida corsi di preghiera profonda; più recentemente, di meditazione e digiuno per la purificazione integrale. Gli abbiamo fatto qualche domanda sui possibili punti di incontro tra preghiera cristiana e yoga.
Quale rapporto ritiene intercorra tra lo yoga e la fede?
«“Al di là delle religioni”, suona il titolo originale di un recente pamphlet del Dalai Lama. La pratica delle yoga, ci si domanda, dove si colloca? Al di là delle religioni? Nel cuore delle religioni? O al di qua? Comporta, include, esclude, minaccia una Fede? Parlo di una Fede, poiché esistono molteplicità di fedi che sono rivendicate non solo da tradizioni teiste ma anche non teiste, come il Buddhismo. Ricordo che si pronuncia-va in tal senso il consigliere spirituale del Dalai Lama Geshe Rabten, in un corso di meditazione gestito “bipartisan”: affermava che anche la sua tradizione comportava la fede. Premettiamo che per “religione” (in latino, relìgio: rilego), si deve intendere l’esperienza del legame che unisce l’umano con il Divino; un’esperienza (è sempre l’etimologia a indicarcelo) che implica anche una rilettura (latino: relègere, rileggere) del proprio vissuto, una più profonda scelta di vita (latino: re-elìgere, scegliere di nuovo) e infine la coltiva-zione di un’attitudine improntata a “devozione” verso la Divinità (latino: rèligens, contrapposto a négligens, negligente). Quest’insieme di aspetti ci dice come sia limitativo e fuorviante confon-dere la “religione” con l’assetto istituzionale, dogmatico, morale, disciplinare e cultuale che l’accompagna, assetto che ne è la traduzione in un concreto stile di vita e segna l’appartenenza a una determinata “confessione”. Se dunque per religione intendiamo quanto sopra, tutte le disci-pline tendenti alla promozione delle facoltà insite nella nostra natura e in ultima analisi finalizzate all’autorealizzazione (Jung direbbe all’individua-zione), si collocano sul versante umano, e con ciò stesso favoriscono l’apertura al Divino. Un corretto rapporto con il Divino non può prescin-dere da un corretto rapporto con l’umano, pur costituendo l’apertura al divino un salto verso l’Oltre, un tuffo nella Trascendenza, una “Grazia”: alle quali cose diamo il nome di “fede”».
La fede è un dono?
«Essa alberga nel cuore umano, anche in modo implicito; se diviene esplicita e si sviluppa se-condo la sua profonda natura, porterà via via al riconoscimento di Dio, della sua Paternità, del dono della salvezza operata da Cristo Gesù, do-nata ai suoi seguaci e resa accessibile per opera dello Spirito Santo (nel «modo che Dio conosce», afferma il Vaticano II ) a ogni uomo di buona vo-lontà. Il cristiano poi non dimentica (è sempre il Concilio a ricordarcelo) che “solamente nel mistero del Verbo incarnato trova vera luce il mistero dell’uomo” e il suo riscatto dalla condi-zione di finitudine e di fallibilità da cui è segnato. Vale anche l’opposto di quanto si è detto, e cioè che la Fede, se retta, contribuisce non poco a sorreggere e potenziare l’umano, posto che umano e Divino non si escludono, ma cooperino in feconda sinergia. Lo stesso yoga ne offre testi-monianza quando, dopo aver sollecitato l’adepto a raggiungere il silenzio mentale e la spogliazio-ne dell’Ego, gli raccomanda l’Ishvarapranidhana, il “confi-dente abbandono in Dio”. Un “Dio”, se si vuole, concepito come sostegno forse più che come approdo, ma pur sem-pre un “Dio”: il Dio degli yogi. Il lettore o la lettrice accorti avranno già colto tra le righe che i “postulati” dello yo-ga: silenzio, rinuncia all’io e apertura a Dio, sono le premesse e i pilastri stessi di un’autentica religiosità! In questo senso l’ho inteso personalmente e lo pratico ormai da diversi decenni».
Cosa ha appreso dallo yoga?
«Lo yoga non è una religione, ma neppure vi si oppone. La mia esperienza, poi, mi dice che le può essere di giovamento, al punto che lo si può considerare, se bene inteso e praticato, alla stre-gua di quei “preamboli delle Fede” di cui parlano i teologi. Basta pensare all’ottuplice sentiero trac-ciato da Patañjali. Poiché i lettori lo conoscono, basteranno rapidi cenni. Esso insegna: le astensioni (i comandamenti biblici); le osservanze (che si traducono in integrità di vita, ascesi, conoscenza delle Scritture sacre etc.); l’armonioso rapporto con il corpo, in cui esterno e interno corrispondono, con conseguente ricu-pero della gestualità sacrale. E qui si può aprire il discorso, non ignoto alla tradizione cristiana, sull’impalcatura mistica della persona che gravita attorno a dei “centri vitali” (chakra in sanscrito) a cominciare dalla sommità del capo, fronte, boc-ca e cuore. Nella preghiera del Messale il sacerdote chiede che Corpo e Sangue del Signore “aderiscano alle sue viscere”;il rientro dei sensi esterni che conduce al risveglio dei “sensi interiori”; e infine gli ultimi tre gradini che si tradu-cono nella capacità di raccoglimento, di meditazione e di quella ricentratura in-teriore che prelude all’apertura verso Dio. Già gli autori medievali sostenevano che, se vogliamo penetrare nelle profondità divine, dobbiamo prima rivolgerci alle profondità del nostro spirito. E che quel Dio che ci trascende, è pure, al dire di Sant’Agostino, “più intimo del nostro intimo”».
Lo yoga migliora la qualità della vita?
«Anche la più elevata delle discipline, se praticata in modo riduttivo, può rivelarsi più di danno che di vantaggio. Il rischio che incombe sullo yoga, come su ogni altra disciplina e sulle stesse religioni, è quello di farne una pratica fine a se stessa (tra il superstizioso e l’idolatrico) e non orientata alla crescita integrale della persona e al suo perfezionamento morale. Può essere pura ginnastica o ricerca di puro benessere fisico. Nell’ipotesi peggiore, può ripiegarci su noi stessi in un narcisismo che apre la porta alle insidie del Maligno. Di qui la diffidenza, negli ambienti ecclesiastici, verso tutte le pratiche che non abbiano una chiara impronta “confessionale”. Si tratta però di un “pre-giudizio” destinato a scomparire nel contesto interculturale e inter-religioso della nostra epoca, e secondo uno spi-rito autenticamente “cattolico”. Ciò premesso, senza dubbio tutte le grandi tradizioni sapienziali e spirituali dell’umanità (che il concilio Vatica-no II invita ad accogliere “laete et reverenter; con letizia e rispetto”) sono per sé finalizzate a promuovere un’autentica qualità delle vita. E quindi ad alimentare nel cuore dell’uomo pace, gioia, amore, compassione e speranza, la quale proietta l’esistenza verso un Oltre di pienezza e di beatitudine imperiture. Speranza che, così è stato detto, costituisce la virtù dei “tempi difficili”. Come è il nostro».
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