Piero Vivarelli: espansione e cuore morbido
Un buon insegnante capitalizza tutta la sua esperienza di vita nello yoga. Parola di Piero Vivarelli
di Marina Nasi
Lo confesso: sono di parte. Piero è il mio maestro e intervistarlo mi diverte ed emoziona allo stesso tempo. Ho cominciato a fare pratica con lui cinque anni fa, in un centro privo di fronzoli nella prima periferia di Bologna, ignara del fatto che si trattasse di uno degli insegnanti più “quotati”, nonché il primo in Italia a ottenere la certificazione di Anusara Teacher. A trascinarmi con crescente convinzione nelle sue classi è stato il lavoro di grande intelligenza sul corpo, chiarissimo fin dalla prima, intensa lezione, unito alla sua simpatia e all’atmosfera apparentemente scanzonata che si respira nella shala. In realtà, con Piero Vivarelli diventare entusiasti dello yoga è tutt’altro che raro. Le sue lezioni, per usare un termine inglese, sono uplifting: ti tirano su, irradiano energia. L’enfasi sugli allineamenti, il lavoro sui guerrieri, la continua esortazione a fare un piccolo sforzo in più si sposano con una passione genuina e con piccoli semi teorici (ogni lezione inizia con un mini-discorso introduttivo al tema del mese, che poi guiderà la pratica) che chi vuole può lasciar germogliare dentro di sé, innamorandosi un po’ di più dello yoga, anche spirituale, e approfondendone la filosofia. In genere accade, e la folla eterogenea (che comprende anche molti uomini) che segue Piero nelle sue classi sembra illuminarsi della sua stessa energia positiva e gioiosa. E se si prende sul serio non lo dà a vedere, proprio come il maestro. Che, a dispetto della grande “fisicità” delle sue lezioni, si è invece avvicinato allo yoga nel modo più tradizionale e canonico, quello che vede le asana come una forma di fortificazione del corpo, affinché questo sia in grado di sostenere una lunga meditazione.
YOGA JOURNAL: Quindi hai iniziato dalla meditazione…
PIERO VIVARELLI: Sì. Quando ho incontrato il mio maestro spirituale: una folgorazione. Ma il mio corpo non mi permetteva di stare nemmeno dieci minuti senza muovermi. Così ho iniziato a fare Hatha per poter meditare senza soffrire troppo. Almeno a livello fisico.
Perché, a livello emotivo ti ha fatto soffrire?
C’è chi pensa che la meditazione sia fatta per essere felici. In realtà è un processo di conoscenza e a volte conoscersi e conoscere può anche provocare sofferenza. Affinché poi questo ci porti a uno stato di maggior benessere, anche quando si soffre. La sofferenza fa parte della vita, lo yoga e la meditazione ti aiutano a gestirla e comprenderla. Ma se non la si provasse si sarebbe insensibili, e non credo che lo yoga renda insensibili.
Quanti anni avevi e da che background venivi?
Avevo 33 anni. E correvo con le automobili… Questa era, principalmente, la mia attività (oltre che il suo lavoro: era caposervizio di una rivista di automobilismo, N.d.r.).
Avevi già quest’aria tranquilla, di chi difficilmente si scompone?
No, decisamente no! Anzi, ero un po’ irascibile. È uno degli aspetti caratteriali che più sono stati influenzati dallo yoga. Non vuol dire che sia cambiata la mia indole, però ho imparato a essere consapevole di certe caratteristiche, a controllarle, pensare e restare in ascolto prima di agire.
E il corpo come è cambiato con la pratica?
Ho iniziato a conoscerlo. Prima ero inconsapevole del mio tipo di fisico. Avevo le scapole alate, le gambe storte… Sono diventato più aperto, più morbido, più resistente.
A proposito di resistenza: le tue lezioni sono impegnative, a volte richiedono sforzo e molto coinvolgimento…
Lo sforzo è necessario. Il principio è quello di equilibrare sforzo e abbandono. Perché se sei solo nella fase della fatica, dell’impegno teso, non va bene: lo sforzo ti serve per lasciarti andare e aprirti al massimo, espanderti. Ma, senza questo impegno, aprirsi al massimo è impossibile. Sarebbe come saltare senza forza nelle gambe: invece occorre prima una contrazione, e poi lasciare andare al momento giusto. Altrimenti si rimane a terra.
Tu sei un perfezionista, lavori molto sugli allineamenti, richiedi molto. Come si riesce a cercare di lavorare al meglio senza cadere nell’errore di trasformare l’asana in performance?
Nell’Anusara il corpo è molto coinvolto, ma sempre in un’ottica globale. La mia pratica, anche quando è davvero intensa, non è mai solo fisica. La performance fine a se stessa è limitante. Non dico che ci sia qualcosa di male, ma è limitante. Se invece è messa in relazione con altro, ha un senso. Per esempio, lavorare sugli asana avanzati ti porta a esplorare a tutti i livelli, ad avanzare globalmente (anche “fallire” una postura insegna qualcosa: come reagisci alle sensazioni o all’errore?), ad osservarti emotivamente, nella relazione con il respiro. Ecco, in questi casi la cosiddetta performance ha un suo senso, non è fine a se stessa. E il mio augurio è che anche lo studente che inizialmente pensa solo a “fare” la posizione poi arrivi a qualcos’altro.
Le tue lezioni sono ricche di posizioni capovolte: verticali, Sirsasana, Pincha, Mayurasana…
Sono quelle che più ci aiutano ad aprire mente e cuore. Ci fanno cambiare prospettiva, ci danno coraggio, che serve per essere aperti. Questi asana regalano confidenza, fiducia, gioia… Se guardi i visi delle persone dopo che hanno fatto le posizioni capovolte,
sono luminosi.
Un’altra cosa che spesso ripeti nelle tue lezioni è “cuore morbido”: che significa?
Cuore morbido, apertura del cuore. Significa essere aperti alle possibilità che abbiamo. Sia alle parti che ci piacciono che a quelle che ci piacciono meno. Essere pronti a non rifiutare, che non significa non scegliere.
Il tema dell’ultimo mese di lezioni era bhakti, l’atteggiamento devozionale. Come entra la bhakti nella tua vita?
Non c’è separazione nella mia vita tra lo yoga e, per esempio, una serata con gli amici. Ho iniziato questo sentiero oltre 20 anni fa e cerco di fare ogni cosa con attitudine devozionale. Poi è ovvio che a volte è facile, come quando vado all’ashram del mio maestro, o è naturale come quando insegno, mentre a volte lo è meno. Però faccio degli sforzi anche quando non sarebbe così spontaneo.
Mediti tutti i giorni?
Sì, sicuramente al mattino quasi sempre, poi spesso prima delle lezioni, a volte durante le stesse, oppure alla sera… Più volte durante il giorno.
Però nella tua scuola c’è un solo appuntamento settimanale con la meditazione (abbinata al kirtan).
Questo è per ragioni di tempi e spazi. Ma tutte le mie lezioni hanno dei momenti meditativi: all’inizio, quando invito a chiudere gli occhi e prendere consapevolezza del respiro, e alla fine. E la stessa pratica degli asana (che invece è sempre a occhi bene aperti, N.d.r.) è meditazione.
E invece cosa pensi del fatto che lo yoga sia ormai diventato anche una moda?
Non sono negativo in proposito. Anzi, non demonizzerei le palestre che offrono lo yoga assieme a tante altre discipline: conosco chi ha iniziato in palestra e poi è diventato uno yogi molto disciplinato. Certo, ora in giro c’è di tutto. Spero che più lo yoga si diffonde, più la gente diventi consapevole e impari a scegliere, discriminare.
Prima di iniziare a insegnare, sei stato due anni in India in ashram. Che esperienza è stata?
Insieme alla nascita di mio figlio (che oltretutto è stato concepito lì), la più bella della mia vita. Ashram significa “senza sforzo”. Che non vuol dire che non si faccia fatica, anche perché esponi te stesso in modo molto profondo. Però è un’esperienza bellissima, dove tutto è portato ad aiutarti nelle tue pratiche: meditazione, canto, persino il servizio la sera… E praticavo molto Hatha yoga, per preparare il corpo a sessioni di meditazione anche molto lunghe. È lì che mi sono formato anche come insegnante.
Ora però frequenti di più gli ashram negli Usa.
Sì, ma vado spesso anche in India. Anche mio figlio, che ora ha 14 anni, ci è già andato più volte e la ama molto.
Come insegnante, c’è un tipo di allievo che ti stimola in modo particolare?
Quelli che si pongono nella pratica in un’attitudine non solo fisica, che abbiano l’interesse a esplorare anche asana complessi, con l’obiettivo non di “fare” la posizione avanzata, ma di usarla come mezzo.
Quando la scuola sta per chiudere, dopo un anno di intenso lavoro, soffri anche tu di stress da fine anno?
Decisamente sì! In alcuni momenti anche durante l’anno, ma soprattutto alla fine sì, si sente molto. Non perché sia stanco di insegnare, ma perché credo di dare moltissimo di me stesso. E questo nonostante formalmente sia un tipo di insegnante che cerca di non entrare mai nelle problematiche individuali delle persone, di mettere dei paletti sani. Non voglio pormi come chi risolve i problemi della gente, credo che sia la pratica a insegnare qualcosa a ciascuno. Io non voglio sostituirmi a uno psicanalista né dire a una persona cosa deve fare al di là della pratica. Eppure, nonostante questo, c’è sempre una carica di responsabilità.
Sono quasi le diciotto, gli studenti iniziano ad arrivare e Piero deve iniziare la sua lezione (che si è tenuta regolarmente anche durante i mondiali, la sera in cui giocava l’Italia). L’augurio è che la sua scuola (periferica e priva di affettazioni o tocchi modaioli), il suo spirito (allegro e mai serioso) e il suo accento (bolognese al 100% nonostante le lezioni internazionali) restino sempre così, perfetto esempio di grounding, di radicamento. Essenziale per espandersi e spiccare il volo al meglio.
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