Il potere curativo di raccontare le storie
La "retta parola" buddhista è qualcosa di pratico, e di grande impatto sulle nostre vite
di Stefano Bettera
Nel Buddhismo proprio la tradizione del raccontare storie è assai viva. Ci sono tutte le storie delle vite del Buddha, la tradizione tibetana tramanda episodi e racconti di famosi lama e asceti, lo zen è ricco di aneddoti sulla vita dei maestri che si dicono cose sconcertanti e si comportano in modo stravagante.
Eppure proprio il buddhismo è noto per la meditazione che si svolge in silenzio, seduti o camminando. Una contraddizione? Al contrario. Quando si pratica la meditazione silenziosa non si impedisce alle storie di emergere. Non c’è repressione. Così come non si impedisce agli uccelli di cantare o al sole di brillare. In realtà si testimonia tutto ciò che emerge. Spesso, soprattutto quando le esperienze della vita sono brucianti, certe forme di silenzio obbligato non aiutano. Anzi, al contrario feriscono. Perché ciò che brucia dentro è troppo forte e reprimerlo finisce per farci male.
Ecco perché in questi casi diventa fondamentale la “meditazione parlata”: diventa importante il raccontare, il dire cosa ci fa male dentro, cosa ci opprime in modo insostenibile. La meditazione parlata, se svolta in un ambito di ascolto dal cuore e profondo, può essere curativa. È un parlare consapevole che ci unisce agli altri. Non è semplicemente esercitare il primato del proprio ego. E praticare soltanto la meditazione silenziosa, quella “tradizionale” non è l’unico modo, a volte, per favorire le condizioni per la consapevolezza. Cosa possiamo fare? Quali sono i metodi e i mezzi opportuni? Raccontare storie, la vostra storia, è un sistema. Perché vuol dire testimoniare l’unità, la totalità della vostra esperienza, senza lasciar fuori nulla. A volte, senza dar voce alla ferita, la guarigione non può aver luogo. Senza guarigione, senza far pace con noi stessi, non si riesce neppure a percorrere davvero il sentiero della pratica.