Yoga e Islam
I Musulmani sono gli interpreti dello yoga moderno. A colloquio con il Professor Stefano Pellò
di Emina Cevro Vukonic
Illustrazioni tratte da “Ocean of Life” – Bahr’ Al Hayat, testo anonimo persiano del sedicesimo secolo, prima rappresentazione sistematica degli asana
A Delhi presso la Guru Gobind Singh Indraprastha University si può visitare, oggi è un museo, la biblioteca di Dara Shikoh, un principe musulmano (1615-1659), che tradusse e divulgò in persiano testi vedici e yogici. La storia della biblioteca, che ha colonnati Moghul di pietra rossa, è una delle tante testimonianze dell’enorme diffusione dello yoga nel mondo islamico, comprovata per altro dal fatto che tutt’ora varie forme di yoga vengono praticate presso alcune confraternite sufi. Le prime incursione islamiche nell’India cominciano nel primo secolo dopo la morte del profeta Maometto (La Mecca, 570 circa – Medina, 8 giugno 632) e per molti secoli il persiano fu la principale lingua colta dell’India, prima sotto i sultanati, tra cui quello di Delhi, e poi soprattutto sotto i Moghul, che governarono il subcontinente indiano. La tesi, sostenuta dagli studiosi, è che fu soprattutto la cultura islamica con il suo cosmopolitismo a permettere la diffusione dello yoga, anche in Occidente.
Ce lo ha raccontato il professor Stefano Pellò, intervistato a Milano appena arrivato dall’Iran. Vicedirettore del Master in Yoga Studies della Università Ca’ Foscari di Venezia, con alle spalle dottorati di ricerca sulla Cultura indo-persiana e sul Cosmopolitismo in area indo-iranica, è studioso della letteratura poetica legata al sufismo, la corrente mistica dell’Islam. Ha insegnato Indo-Persian literary culture presso la School of Oriental and African Studies di Londra e alla Columbia University di New York e ora insegna lingua e letteratura persiana a Ca’ Foscari, Venezia.
Quando è nato il suo interesse per lo yoga?
Stefano Pellò Tardi nel mio percorso di ricercatore, quando mi sono reso conto che la trasmissione della cultura yogica in epoca moderna è soprattutto di derivazione indo/persiana. Questa è la grande scoperta, o riscoperta. Sulla versione islamica dello yoga si sono basati i primi studiosi europei perché fino all’Ottocento l’arabo e il persiano erano in Europa molto più conosciuti del sanscrito. Tutto l’Ottocento riflette sui testi sacri hidu, attraverso la mediazione persiana. Il filosofo Shopenhauer le legge nella traduzione latina fatta da un orientalista francese, Anquetil du Perron, sulla base della traduzione persiana del sopra citato Dara Shikoh. Tutto questo implica che la traduzione persiana risemantizza completamente il testo vedantico, lo interpreta in chiave sufi. Più facile da comprendere per un occidentale in quanto la terminologia sufi è monoteista e si riferisce nelle sue radici al mondo concettuale della filosofia aristotelica e neoplatonica.
Si può dire che in Occidente è arrivato un pensiero indiano islamizzato?
È fondamentale capire questo punto, perché una lingua non è solo una terminologia, è un sistema di concetti. Ad esempio se io dico anima utilizzo un termine che immediatamente mi riporta a duemila anni di storia del cristianesimo; dunque se io traduco il sanscrito atman con anima non rendo il vero complesso significato di atman. D’altra parte, c’è un secondo punto ancora più importante da considerare: non solo queste traduzione islamiche hanno risemantizzato il testo ma sono, molto spesso, quanto noi abbiamo rispetto a tanta parte dello yoga. La prima rappresentazione sistematica degli asana si trova in un testo anonimo persiano del sedicesimo secolo, il Bahr’AlHayat, l’oceano della vita. Non è un testo filosofico di ambito scolastico che interessa una ristretta cerchia di studiosi, ma un vero manuale che elenca, raffigura e spiega gli asana. Il testo ha avuto una vasta diffusione in tutto il mondo islamico tanto che se ne sono trovate copie in decine di manoscritti tra Damasco, Istanbul e i Balcani. Questo significa che, per esempio, nella Costantinopoli ottomana del Settecento i sufi studiavano gli asana.
Nelle tekie – i luoghi di ritrovo delle confraternite Sufi – si praticava yoga?
Sicuramente si utilizzavano delle tecniche di origine yogica, soprattutto il pranayama. Più di ogni altro aspetto dello yoga il controllo del respiro entra profondamente nel sufismo. Per il sufismo lo yoga non è solo un contatto culturale o concettuale, è una pratica. Ad esempio c’è un enciclopedia del sapere islamico medievale del 14° secolo, il Nafa’is al-funun che presenta un capitolo sulla “scienza del respiro” definita come “la disciplina degli indiani che viene applicata dai sufi”.
La tradizione yogica vive ancora in ambito religioso islamico?
Ci sono delle confraternite sufi nel Pakistan odierno che dichiaratamente usano sia asana sia tecniche respiratorie. Naturalmente dandone un significato concettuale adatto alla visione sufi, ma dal punto di vista delle pratiche c’è una continuità con il mondo yogico. Il problema resta sempre quello di definire quale sia un “originale yoga” a cui ci si rapporta. Noi sappiamo che il testo di Patañjali perde importanza con la fine dell’età classica e riemerge solo nell’Ottocento. Sappiamo però che di tecniche yogiche il medioevo indiano fa uso, soprattutto in ambito islamico, mentre in ambito induista si assiste a una marginalizzazione dei praticanti yoga, considerati dei “vagabondi”. La lunga storia dello yoga si tramanda quindi nei circoli sufi dove si praticano soprattutto dei pranayama molto codificati, tesi a favorire diversi gradi di ascesa mistica. Studiati dunque non certo per motivi salutistici quanto per favorire un percorso di destrutturazione del sé. Nello yoga “vedantico” e nel sufismo islamico c’è la stessa visione di fondo: l’individuo è solo una onda nel grande oceano.
Perché in Occidente abbiamo sottovalutato la presenza dell’Islam nella tradizione yoga?
In India, con l’arrivo dei britannici, arrivò il bisogno tutto coloniale di catalogare, di separare. Avvenne una sorta di epurazione, per cui ciò che è yoga doveva per forza essere indù. Mentre fino al Settecento le pratiche yoga venivano comunemente usate in ambito islamico e così come in ambito induista si rifletteva sul grande sentire monista del sufismo. Quella che ci è pervenuta dunque è una lettura occidentale della complessità culturale indiana, ma è una visione fuorviante. Si pensi al principe ereditario Moghul Dara Shikoh figlio dell’imperatore Shah Jahan, il costruttore del Taj Mahal. Era un condottiero, un poeta e un erudito, un illuminato che con l’aiuto dei suoi saggi scrisse un libro comparativo sui due oceani mistici, quello del sufismo e quello del vedanda, il Majma ul-Bahrain (l’unione dei due oceani), una opera grandissima. Dara Shikoh tradusse cinquanta Upanishad, la Bhagavad Gita e lo Yoga-Vasishta dal sanscrito al persiano in modo che potessero essere letti dai musulmani.
L’Islam ha un libro sacro, il Corano, al cui rispetto i musulmani sono tenuti. Come si concilia l’aderenza al libro sacro con la ricerca esperienziale, giocoforza individuale, suggerita dalla pratica yoga?
L’islam classico – da non confondere con alcune aberrazioni contemporanee – non aveva problemi di esclusione; lo stesso libro sacro invita a cercare la verità dovunque essa si trovi. L’Islam classico si pensava come un grande insieme contenente in sé tutti gli altri sistemi religiosi. Ne sono testimonianza visiva alcune immagini miniate in cui si vede l’imperatore Moghul e la sua corte visitare il maestro yogin nella foresta.
Tentando un’impossibile semplificazione, che cos’è lo yoga nell’Islam?
Viene descritto come “ciò che gli asceti fanno”. Non è tanto un sistema filosofico quanto uno stile di vita. Certo non si parla dello yoga come lo intendiamo oggi, ma della pratica degli yogin.
Come è vista la pratica dello yoga oggi nei paesi islamici? Leggendo nel web si scoprono opinioni che la reputano inconciliabile con la religione islamica, posizioni possibiliste, che la accettano se non tocca temi religiosi, e poche posizioni favorevoli dove è visto come Sufi yoga, la via del cuore.
Posso dire che in Iran, in Malesia, in Turchia, nel Nord Africa nell’ambito della buona società – non certo nei ceti culturalmente svantaggiati – la pratica dello yoga è diffusa, suscita un grande interesse con l’attenzione però a fare in modo che non vada a toccare aspetti religiosi. Non va dimenticato che negli anni ‘70 l’immaginario sull’India, quello che portò i figli dei fiori occidentali e i Beatles sulle sponde del Gange, fu un fenomeno diffuso anche nei paesi islamici. Ci furono figli dei fiori iraniani e all’epoca si assistette anche a una ventata di conversioni, se non all’induismo, al buddhismo.
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